Cassinelli, la musica delle parole

Di GIULIO GALETTO

 

Un poeta ligure che, nella sua scelta di vita appartata, nel tono sommesso ma, nel fondo, forte e intenso della sua lirica, non smentisce i segni della propria terra: è Giuseppe Cassinelli. Il triangolo della sua vita è tutto ligure: nato a Dolcedo nel 1928, vive e lavora ad Alassio, ma nel silenzio del borgo di Torrazza, vicino alla nativa Dolcedo, trascorre le vacanze estive. Cassinelli ha al suo attivo un buon numero di pubblicazioni. Quattro le raccolte di poesia in lingua: "Preludio alla saggezza" (1955), "Tuttacielo" (1972), "Il tordo còrso" (1978) e, ultima,"Come un calmo paese" (1997) che raccoglie, con varianti e correzioni, testi delle raccolte prece­denti e testi nuovi che arrivano fino ai primi anni Novanta. Nel dialetto della sua terra sono invece le poesie delle due raccolte intitolate "Ciòiu de mazu" (1970) e "U fieu e a neutte" (1989). Cassinelli è, inoltre, autore di diversi saggi critici su autori del Novecento e ha curato i carteggi Pascoli-Mario Novaro, Ettore Serra-Titta Rosa, Boine-Mario Novaro. Nell'ormai lungo percorso della poesia di Cassinelli perdura, pur nell'evoluzione, una linea di sobrietà e, insieme, di limpidezza espressiva non turbata dai diversi sperimentalismi venuti via via di moda nella seconda metà del Novecento: una linea che garantisce a tutta l'opera di questo poeta il segno di una personalità inconfondibile. Abbiamo incontrato Cassinelli nella sua casa delle vacanze, arroccata dove «si spalanca / a mare la collina di Torrazza» (è una bella immagine di una sua lirica del '71). Ci ha accolto con gentilezza e ci ha intrattenuto con una lunga, amabile conversazione: ci è sembrato che la voce sommessa, il tono pensoso, il puntiglio della precisione in ogni riferimento fotografassero l'indole di uno scrittore che, ricco di idee meditate a lungo, si tiene lontano il più possibile dall'approssimazione, dalla chiacchiera vuota, dall'indifferenza delle valutazioni.

Come si espresse la sua vocazione alla poesia?

«Credo si sia trattato subito, nell'età adolescenziale dell'intuizione dell'effetto più forte, più carico di significati, che le parole, messe in un certo ordine possono ottenere rispetto alla piatta comunicazione data dalle parole adoperate secondo l'uso corrente. Mi affascinava il ritmo di una lettura scandita, mi incantavano le suggestioni che un ritmo aggiungeva al più letterato e immediato significato di un testo. Fin dal tempo del ginnasio, traducendo per esempio le "Bucoliche" di Virgilio, cercavo di dare un ritmo alle parole italiane perché in qualche modo non fosse cancellato il fascino del testo latino. È da quella suggestione che sono nati, tra l'altro, i versi di una poesia del 1954: «... Se a me / verrai, amico, avrò molli castagne, / frutti molto maturi e casti versi...»».

Il suo affacciarsi alla poesia coincise con la stagione in cui la linea poetica dominante era dell'ermetismo. Ne fu influenzato?

«L'ermetismo voleva dare grande risalto all'immagine, tendeva la parola fino al limite dell'ineffabile. A Sanremo Renzo Laurano era un ermetico che insegnava agli allievi che la poesia vera sta nella purezza incontaminata delle immagini. Io sentivo la suggestione di quelle teorie, ma cercavo di non essere ermetico, di non far perdere alle parole della poesia l'ancoraggio alla concreta realtà della vita».

Sì, effettivamente si sente che tutta la poesia tende ad evitare l'ineffabilità di segno mallarmeano. Lei piuttosto dice il sentimento e il pensiero concentrandoli in un 'immagine ben definita: come nei cosiddetti "correlativi oggettivi" di Montale. In una sua poesia del '52 mi hanno colpito questi due versi: «... sull'arrossato muro anch'io veda dileguare, / sfarfallando, la scoria grande di me». Non crede che questo sdoppiamento dell'io tra una figura in carne ed ossa e la sua immateriale ombra o "scoria" proiettata su un muro possa richiamare i celebri versi di "Ossi di seppia" «Ah l'uomo che... l'ombra sua non cura che la canicola / stampa sopra uno scalcinato muro!» ?

«Aldo Capasso, recensendo le mie poesie, ha affermato che in quella di data più alta è evidente l'ascendenza montaliana. Ed è vero, ma anche qui, al di là di quanto un modello molto amato può essersi inconsapevolmente inciso nella mia sensibilità e nella mia voce, il mio sforzo è stato quello di seguire esigenze di motivi, riflessioni, figure personali».

Si parla di una "linea ligure" della poesia novecentesca: un'astrazione o qualcosa di effettivamente documentabile?

«Un dato che accomuna, al di là, però, di tante e anche forti differenze, poeti come Boine, Novaro, Sbarbaro, Montale, è l'esigenza di frenare l'effusione sentimentale; un dato che poi si incarna in soluzioni come le scorciatoie espressionistiche di Sbarbaro, i toni scabri di Montale... credo comunque che l'uso di una categoria come "linea ligure" possa essere fonte di genericità critica».

Che cosa può dirci della sua poesia in dialetto?

«Ho iniziato come poeta in lingua, il dialetto è venuto dopo. Forse sull'onda di una suggestione antica (bambino, nelle notti di vento e pioggia, dal letto sentivo il carrettiere che passava col suo carico di olive e sentivo il conforto della casa «fosci u l'è u bon da cà») o anche perché al dialetto ricorrevo come a una lingua cifrata per evitare che mi fossero lette e comprese certe lettere... E poi scrivere versi in dialetto mi sembra un modo di salvare parole altrimenti destinate a morire». Che cosa pensa della poesia nella Liguria d'oggi? Ettore Serra diceva che la poesia contemporanea si era rifugiata nelle due ascelle d'ltalia, il golfo ligure con Montale e gli altri e il golfo di Trieste con Saba. Oggi La Liguria produce ancora poeti, anche se magari si esprimono in prosa: pensi a Francesco Biamonti i cui romanzi vivono di una bellezza che è più lirica che narrativa. Giuseppe Conte è un notevole poeta che ora scrive in prosa, ma ... non cessa per questo di essere poeta. Cesare Vivaldi, nato nel '25 e scomparso quest'anno, è stato un poeta di straordinaria visività: il suo dialetto, che è una fusione di parlate di diversi centri liguri, crea forti immagini, dipinge il mondo con le parole».

I suoi lavori in corso?

«Sto ultimando un racconto lungo imperniato sulla storia di alcune grandi famiglie di Dolcedo nell'epoca a cavallo fra Otto e Novecento. Prosa, non versi; e una prosa per la quale mi sono imposto un verismo assolutamente oggettivo; lavoro limando lo stile in modo da eliminare impressioni di intervento soggettivo del narratore».

Cassinelli ci legge una pagina di questo nuovo libro in cantiere: la sua voce sottolinea l'effetto che lo stile oggettivo deve produrre. In realtà egli è poeta anche qui. La parola scritta - di una poesia o di un racconto in prosa - per lui è sempre molto di più della parola della comunicazione corrente: è il mezzo dell'espressione, ma è anche l'anima di ciò che si intende esprimere.


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